Capitolo 1

MAX

Piove che Dio la manda e ormai è più di un mese che le strade sono bagnate e piene di pozze. Noi uomini veri le evitiamo quelle pozze e io a maggior ragione:

un po’ perché sennò mi viene il raffreddore,

un po’ perché mi si inzuppano le scarpe e i pantaloni e poi chissà cosa dicono in ufficio,

un po’ perché, diciamoci la verità, sono stufo di essere fradicio dentro e fuori di casa.

Anche stamani lenzuola a lavare e doccia calda per cancellare quella sensazione di bagnato.

Noi uomini veri non sogniamo di cadere, di morire o cose del genere. Il mio incubo è una pozza come questa che sto evitando mentre cammino per strada. Nera. Immobile. Con il mio riflesso sopra e quella voce che mi parla dentro. Il nero più profondo che si macchia di aloni bianchi a ogni frequenza emessa da quella voce profonda che, ne sono certo, ce l’ha con me.

Uno schifo.

Non dice neanche cose interessanti.

Nulla che uno psicologo da quattro soldi non tiri fuori alla prima seduta: deve entrare in contatto con il suo io profondo, cambiare abitudini…

Nulla che un buon superalcolico e una serie tv non possano risolvere, parola di MAX.

Capitolo 2

NON DIRE MAI

«Buongiorno Max, come è elegante stamani. Le ho lasciato i fogli di bilancio sulla... ».

«Lo so.»

Amy mi guarda basita, come fa sempre. Provo a spiegarmi.

«Devi sapere, Amy, che non appena varchi la porta dell’ufficio, se volgi il tuo sguardo di circa, mah, 20-25 gradi a destra, puoi vedere il pannello del Sig. Fil che riflette sul vetro del settore 4 che si specchia sul pannello abbastanza sporco da proporre un licenziamento della Sig.na Elion che rimbalza sulla porta lucida della toilette per finire praticamente ormai quasi per magia pura sulla mia scrivania. Scrivania così ordinata e lucida da meritare una promozione, ma in questo momento ricoperta di fogli che non ho lasciato io, ma tu, Amy. Aggiungici che oggi è l’ultima settimana del mese, quindi settimana di bilancio...»

La bocca della mia segretaria resta aperta, certamente di stupore.

«Buongiorno Max, beh, ora ne sono certa, è lei, per un attimo ho pensato di averla scambiata con Sherlock Holmes.»

«Elementare Amy, Elementare»

Lo so: ha una cotta per me. Come non avercela? Ha come capo ufficio Max, un capo di un certo livello. Tutti i colleghi provano a raggiungermi, invano direi, ovviamente. Al mio arrivo alzano gli occhi, guardano altrove, sussurrano alle mie spalle se passo dai corridoi, come se non me accorgessi. Stupidi.

L’invidia è una brutta bestia, caro Max, devi farci i conti.

Comunque il bilancio a questo giro è piuttosto smilzo, pensavo peggio, ci vorranno quattro giorni di lavoro.

L’unica cosa fuori posto è questo volantino infilato tra i fogli, dopo Amy mi sente.

Pensi che la tua vita sia perfetta?

Non essere frettoloso a pensarlo.

Aspetta di conoscerci.

Ci mancavano le pubblicità dei fanatici religiosi, quella ragazza deve smistare meglio la posta.

«Michael Jordan prende la mira, intorno a lui non vola una mosca. Ecco che solleva il braccio, tira e… canestro! La folla esulta» e ora al lavoro, non prima di aver chiesto a Amy di svuotare il cestino però!

«Max io vado, chiudi tu?»

19.30

Questo orologio deve essere rotto, possibile che le giornate evaporino così? Quanto tempo fa mi sono seduto qui?

La ragazza è ancora sulla porta e mi guarda come se una catena invisibile non le permettesse di andar via senza il mio permesso.

«Sì Amy, vai, posso pensarci io» adoro vederla in preda al senso di colpa e per questo aggiungo «se tu hai da fare...». Infatti è indecisa, ma poi mi saluta tacchettando via velocemente.

Da che io ricordi ogni sera, facciamo sempre lo stesso teatrino, ma come sempre non mi ricordo che cosa è successo durante la giornata: una, due, mille riunioni, altrettante telefonate, un paio di call.

Via, tutti sono andati e quindi posso staccare, adoro che pensino a me come a quello più efficiente, come “Max, il capitano, colui che lascia la nave sempre per ultimo”.

Cavolo, anche oggi mi sono dimenticato di dire a Amy di chiamare il servizio tecnico dell’ufficio per far oliare questa serratura. Se non glielo dico io figurati se lo fa da sola, ma questa maledetta chiave si blocca ogni volta e finisco ad aspettare al semaforo rosso davanti all’ingresso. Tempo buttato.

Anche oggi.

«Stronzo!»

Quel cretino con il motorino non poteva evitare la pozzanghera? No, doveva proprio riversarmela tutta addosso!

«Brutto figlio di puttana, senti qui, come sono tutto… asciutto?!?»

Ero certo che mi avesse preso, cavolo sì, ne ero sicuro! Mmm… vabè, Max stai lavorando troppo, inizi ad avere addirittura le allucinazioni!

Ora torni a casa, ti fai una doppia birra e domattina ti riposi.

Quel bilancio deve averti veramente distrutto, amico mio.

Capitolo 3

IL MERCATINO DI LONDRA

Vedi Max?

Bastava un po’ di birra per ridurre gli incubi. Forse hanno aiutato anche le benzodiazepine, ma sto decisamente molto meglio e i fogli del bilancio possono aspettare un paio d’ore. Ho bisogno di muovermi, colazione al bar, un giro al mercato per la spesa, un po’ di palestra e poi lavorolavorolavoro. Che la promozione mica arriva dormendo!

Certo che per essere le sette di giovedì mattina è pieno di gente questo mercato, non ci avevo mai fatto caso. Dai, mi servono solo due cose, ma oggi sono così in buona che potrei anche comprare un paio di ghìrighìri che Sek cerca di vendermi da un anno, è forte Sek, troppo simpatico, dice che sempre che nei suoi braccialettini “sciè l’anima di dua nonna”, io mi limito a dirgli che “mia nonna è ancora viva Sek!”

Ahahahah…

«Padrone, padrone, si fermi da me, sia mio ospite»

«Signore assaggi, assaggi tutto quello che vuole»

«Hoş geldiniz, il tuo arrivo è adorabile mio Re»

Ora, addirittura “mio Re”, certo che sono molto accoglienti da queste parti e quanto sono belle queste stoffe che mi fanno vedere, e queste mani di donna sono lisce, il bere è dolce, l’aroma speziato. Sembra proprio che tutti vogliano toccarmi e parlare con me, lo so che faccio questo effetto, ma così inizia a essere troppo.

Signora, la prego, tenga giù le mani, lei ha una certa età!

Ah, vuole che balli con sua figlia?

Ma certamente, danziamo bella ragazza, è tuo padre quell’uomo pallido lì in fondo?

No?

Perché ci guarda così allora? E perché è così… bianco?

Credo che tutto questo girare mi abbia fatto male alla testa, potresti fermarti dolcezza?

Avrei bisogno del mio letto, avrei bisogno di dormire. Questo mercato è un po’ troppo per me.

Senti come sono belle le lenzuola del mio letto, mi sembra di non essermi mai alzato da qui. Un altro giro di Lexotan che male potrebbe farmi? Ma chi era quel tizio cadaverico? Continuava a parlare di un accordo o di un contratto, di qualcosa o qualcuno che sto dimenticando. Probabilmente è un avvocato, ma non l’ho mai visto in azienda, resta il fatto che mi guardava malissimo ed era bianco come le tende da cui filtra questo sole...

Capitolo 4

IAIA CLEO

Brezza fresca e profumo di biscotti.

Non capisco, la finestra l’avevo chiusa prima di andare a dormire e non c’è nessun cameriere che cucina per me la colazione.

Che qualcuno sia entrato in casa mia?

Piano infallibile: fingere di dormire e ascoltare se c’è qualcuno.

Nessun rumore.

L’odore di latte, miele, torta di mele e cannella è così forte che lo respiro a pieni polmoni, e se fosse uno di quei gas che usano i ladri per addormentare gli inquilini delle case e svaligiarle?

Devo restare immobile, ma questo prurito al naso mi sta uccidendo, che diamine è?

Come se delle zampette stessero camminando sul mio naso, dentro la narice no eh… no no... Non riesco a trattenermi, almeno un occhio devo aprirlo.

Uno scarabeo? In città? Dentro casa mia?

Ma questa… non è casa mia!

Da me non c’è una vallata di un verde meraviglia, con a sinistra un piccolo fiume cristallino, alberi rigogliosi sulla riva e un promontorio che ha tutti i colori del rame, dell’oro e del petrolio.

Bene, niente panico.

Le ultime pasticche probabilmente erano di troppo, ma ora la cosa più urgente è fare fuori questo schifosissimo scarabeo e, in assenza di uno scacciamosche, un bastone è lo strumento più adatto.

«E no eh, ora mi hai stancato.»

Meno male che non c’è nessuno a vedermi, perché più che con uno scarabeo sembra che io stia lottando con un rinoceronte o un lupo mannaro.

«Ah! Dove sei bastardo? Sei sleale, colpire alle spalle non ti fa molto onore».

«Sei agile, ma un po’ troppo agitato per i miei gusti» dice una voce dietro di me.

«Aaahhh, basta Max! Gli scarabei non parlano, anzi guarda, gli scarabei e le vallate verde meraviglia manco esistono!» ma davanti a me non c’è uno scarabeo.

Qualcosa di velocissimo mi sfiora l’orecchio e con precisione millimetrica tramortisce lo scarabeo che svolazzava intorno a me.

«Non devi aver paura, è solo un boomerang. Non farebbe mai male a qualcuno il mio boomerang.»

Questa voce è reale. Reale di uomo. Uomo reale. Voce reale di uomo reale che ha appena afferrato al volo un boomerang.

Stringo gli occhi, mentre quelli che ho davanti sono grossi, belli aperti e sorridenti. Intorno al viso un enorme cesto di capelli neri, riccioli e grezzi.

Agita la mano che tiene il boomerang.

«Non ne hai mai visto uno?»

Scuoto la testa, forse ne ho visto uno nei documentari in tv, ma uno vero mai.

«Io sono Piuk.» tende la mano libera verso di me che resto immobile.

«E tu? Non ti ho mai visto in giro, benvenuto sull’isola di Iaia Cleo».

Capitolo 5

UN CASO ECCEZIONALE

«Dai Max, saranno due metri, forza»

«Piuk, passo da qui»

«Va bene ti aspetto, fifone! Sei lento…»

«E tu sei un capellone ciccione»

«Eccomi, e non mi chiamare fifone»

«Max sto scherzando, non ti preoccupare, ti abituerai… sei qui solo da due settimane… certo che… un salto di due metri, sei proprio un cacasotto!» Muahahahah…

Le giornate con Piuk passano così, siamo diventati amici, inseparabili nonostante mi costringa a delle estenuanti lezioni di boomerang. Non si può vivere qui senza dare il proprio contributo, il che significa saper cacciare, cucinare, prendere l’acqua e mille altre piccole faccende.

Nonostante questo, giorno dopo giorno abituarsi all’isola di Iaia Cleo, a questa vita, è stato facilissimo. Torrenti da saltare a parte, alla fine non è molto più che un verde maxi-working: divisione dei compiti, distribuzione degli spazi e la natura che si fa regola. Niente guerre, niente risse, niente gelosie.

“Aria nuova, vita nuova” ho pensato quando sono arrivato, tre mesi fa.

Mi ci voleva proprio, alla fine tutto quel lavoro e quei colleghi invidiosi mi stavano avvelenando l’esistenza senza che me ne accorgessi. Vampiri emotivi, ecco che cos’erano.

Mentre Iaia Cleo per me è perfetta, su misura. Da quando sono qui non faccio più incubi, ho imparato a giocare a Kubb e cucino lo stecco come non ci riesce nessuno.

Piuk ha perso la sua famiglia in non so bene quale incidente alle cascate, lui non ne parla volentieri e credo si senta in colpa per non averli mai cercati o mai trovati, ma probabilmente è questo il motivo per cui mi tratta come se fossi suo fratello adottivo. Siamo simili, siamo soli. Anzi, eravamo soli.

Ho iniziato a pregare il loro Dio, per modo di dire, faccio finta, è chiaro. Che mi importa a me di Iahai, il Dio Bianco lo chiamano. Una statua abbastanza sempliciotta lo rappresenta, bianca, lustra, pulita, sembra un babbo natale magro e pallido.

Sto anche provando a razionalizzare il trasporto dell’acqua e la divisione dei lavori, ma che vuoi farci? Sono un po’ selvaggi, senza cultura e alcune cose non le capiscono proprio. Mi tocca impartire anche qualche lezione di vita, qualche regolina Max style, per gestire il tutto. Inutile dire che anche qui sono il migliore, i’m the best, el mejor hombre de esta ínsula, u’ megghio ‘e tutt’ quant’. Non poteva essere altrimenti. Farò carriera, diventerò il Re Max di Iaia Cleo, che sarà mia.

«Max ascolta»

«Piuk mi hai spaventato, com’è che non ti sento mai arrivare?»

«Lo sai, sono silenzioso»

«Ehi, un mezzo sorriso? Cos’è, ti è morto lo scarabeo?»

«Max ascolta, abbiamo un problema, e te ne voglio parlare, ora»

«Un problema? E che problema? È impossibile, qui non esistono i problemi, è impossibile, è imposs...»

«Lo pensavo anche io Max, ma dalla cascata mi è stato riferito che tu porti i secchi per metà dose di quanto possono contenere, e per di più ti metti a rimproverare gli altri per la stessa questione. Cosa fai, predichi bene e razzoli male? Per l’ennesima volta hai impedito a Clod di cucinare lo Stecco, quando sappiamo benissimo che tutti hanno il diritto di provarci almeno una volta, se non altro è una cosa che si può fare benissimo in due.»

«Ah ah ah, ma chi Clod? Ma se non sa neanche come si scuoia uno Stecco...»

«Gli si insegna, Max! Lo sai. Gli si insegna.»

«Ascoltami bene, cosa insegno e a chi insegno lo decido io, e di certo non perdo tempo dietro a quello stolto di Clod e i suoi amici! Tu sei il mio migliore amico, ma Clod...»

«No Max, fai finta di non capire? O fai finta di non sapere? Sai benissimo come funziona qui la faccenda, e ti ho già detto che non siamo in quel coso, come lo chiami? ‘Ufficio’? Iaia Cleo non è il tuo ufficio, non ci sono tante regole e quelle poche che ci sono vanno rispettate e fanno parte della nostra comunità, prima fra tutte, il non sentirsi superiori agli altri, è chiaro?»

«Superiore?» ora gliela dico tutta «E allora tu? Che non ci vai mai a prendere l’acqua? Parliamone.»

«Te l’ho detto mille volte Max, non posso andarci alle cascate»

«Ah sì? E perché allora? Te la cavi con un semplice ‘non posso’, sai cosa penso? Che non c’è nessun ‘non posso’, e che tu sei un gran cacasotto, ecco qual è la verità»

«Non è così Max… non ho voglia di parlarne. E non deviare il discorso, sai bene a chi devi chiedere scusa, avanti, ti sta aspettando»

«Piuuuuk» faccio una pausa a effetto prima di esibire il mio miglior dito medio «Vaffanculo.»

Ecco, il primo incubo qui a Iaia Cleo l’ho fatto dopo questa chiacchierata.

Erano ormai 3 mesi che non mi succedeva, e ora è tornata, la stessa voce, lo stesso nero, con la stessa macchia bianca al centro, lo riconosco, riconosco il tono, riconosco la sensazione, il sapore intenso e amaro di qualcosa che non torna, fuori posto, che non so dove mettere.

Le urla di Clod mi fanno scattare fuori dalla branda: si stanno picchiando tra loro, probabilmente per un secchio troppo vuoto.

Capitolo 6

IL VINCASTRO E LA CAVALLETTA

«Non puoi portare i secchi mezzi vuoti, Piuk, diglielo tu!»

«Ragazzi state calmi...»

«Io non sono calmo, e ci scommetti che gli spacco la faccia?»

«Non la devi spaccare a me, è stato Max a convincermi a farlo, è lui che mi ha detto di fregarmene e di durare meno fatica, ed è vero, è meno faticoso, quindi da oggi porterò solo mezzi secchi, anzi, quando non ne avrò voglia, non ne porterò per niente». Gli altri non so chi siano, ma la voce lamentosa di Clod la riconoscerei tra mille e siccome non ho voglia di averci a che fare mi godo la scena nascosto tra le fronde della macchia.

Comunque, per quanto tardo, Clod ha capito il concetto: per quale motivo fare tutta quella fatica? Che i lavori più faticosi li faccia chi ne ha voglia o chi non può fare altrimenti. Quelli come me sono fatti per pensare, per decidere, per comandare, perché noi sappiamo sempre cosa vogliamo.

Ecco, guardali, hanno iniziato a menarsi.

Povero Piuk, lo so che ci rimetterà la faccia nel separarli, ma io non ho proprio intenzione di seguirlo. A dirla tutta, non mi interessa affatto la loro vita, la loro morale, chi se ne frega. Chi se ne frega di secchi, di falò, di animali da compagnia, chi se ne frega di gente che non sa cosa vuol dire avere gli attributi, non sa cosa vuol dire ottenere una promozione, fare carriera, per non parlare della realizzazione personale.

Tuona, cavolo, è la prima volta che vedo nuvole così scure a Iaia Cleo, anzi, non avevo mai visto delle nuvole qui, ora che ci penso.

Dai dai che non piove, meglio andare verso le cascate di Highwall però, lì troverò riparo in qualche anfratto se dovesse mettersi male.

«Chi c’è?» Rumori di frasche sulla destra, mi sporgo ma non vedo nessuno.

Non c’è un alito di vento, che sia stato uno stecco?

Ancora un rumore, questa volta a sinistra. «Piuk sei tu? Dai vieni fuori.»

Niente.

«Se mi stai seguendo, sappi che ti ho sgamato, e non è colpa mia se al villaggio hanno perso la testa, chiaro?»

Niente. Pace. Ciao Piuk.

Tuona forte, tra un po’ diluvierà. Mi devo muovere.

Senti qua, questa volta il vento soffia, eccome. Cavolo, sempre più forte. Ma che cavolo. Oh merda! Quel ramo l’ho schivato per miracolo, anche quest’altro.

Certo che quando decide di piovere qui lo fa sul serio, senti che tuoni e più che il vento sembra una tromba d’aria.

Accelero, ma l’acqua non mi fa vedere dove vado.

In un attimo mi ritrovo col culo in terra.

Non faccio in tempo a rialzarmi che un altro colpo a sinistra mi ributta in terra.

Eppure non c’è niente e nessuno qui.

«Idèi pió u tià òttos edíra èrret uiggàl

Arrèta tsè u qi daminal otà ccesià hut emàfni»

Non è il rumore del vento. Questa è una voce, profonda, seria.

Rimbomba come se fosse dentro la mia testa.

«Osír rosida mro fingo ai vóta ‘zza psià hu tottedelam

Ità zzammà iàh ilènes ràdna da míssor pli otter tso ciàhe».

Non capisco. Non capisco. Non capisco.

«Iasól nonù teeto nós ehcói oí doùtli onós ehcói

Oíp mècso tsè ùqnocal rínifid al rèttem sídani dróit Iahai»

Silenzio. E anche il vento si è calmato.

È evidente che non sono solo, come è evidente che non è Piuk, questa non è la sua voce.

«Non puoi capire, stupido cervello spento!»

La voce ora è fuori dalla mia testa, mi giro di scatto, cerco la sua provenienza: «Chi cavolo sei?»

«Hai fatto di tutto per distruggere la possibilità che ti è stata data, che IO ti ho dato. Tu non puoi capire la lingua sacra, la lingua antica di Iahai, il Dio Bianco dei Sogni.»

Una figura umana, bianca come un lenzuolo steso al sole, si staglia davanti a me.

«Il Dio bianco di chiii? Ehi pagliaccio, se cerchi rogna l’hai trovata! Stammi lontano!»

«Stai attento Max, stai attento a come parli. Non ti rendi conto di niente e non hai rispettato il nostro accordo.»

«Aspetta aspetta, ora mi ricordo di te, so chi sei. Sei quel vecchiaccio pallido che era al mercato. Avevo capito subito che non eri simpatico.»

Ma davanti a me non c’è più nessuno. La voce ricomincia a parlare dentro la mia testa:

«Enói zàre disnóci dopít nussen etnè inití remit non

Atín gídàù tàlera tsè plàcassop ìla míe dó iggè pli èhc»

Un soffio improvviso sull’orecchio. Mi giro di scatto, violentemente.

E lo colpisco, cavolo, colpo di scena, non me l’aspettavo!

Ma non faccio in tempo a stupirmi che un pugno dritto sul naso mi fa arretrare di tre passi. Sento colare il muco dalle narici e la rabbia mi esplode nel cervello, non posso stare fermo.

Iniziamo a colpirci, senza sosta, senza ritegno. Il vecchio è forte, non posso negarlo, ma perde troppo fiato a parlare mentre mi mena: «Non sei niente, non hai umiltà, non hai rispetto, non hai una dignità.» Il sangue sulle nostre facce inizia a essere un po’ troppo, ma lui non sembra avere intenzione di fermarsi.

«E non sai cosa sia l’onestà, non hai desiderio, non hai alcuna volontà, povero Max. E sai cosa? Sei un vigliacco. Non hai coraggio!»

Io non ho coraggio?

Siamo a due metri di distanza, alle mie spalle il rumore della cascata di Highwall. Arranchiamo entrambi e io sono stanco morto, ma sentirmi dire che non ho coraggio mi fa veramente imbestialire.

«Pensi che non sia coraggioso? Mmm? Lo pensi davvero?»

Faccio altri due passi indietro, sento il tallone che non tocca più terra, il vapore dell’acqua mi bagna le spalle.

«... Lo pensi davvero?» non faccio in tempo a terminare queste parole.

Mi butto.

Porca puttana, mi sono buttato veramente. L’adrenalina mi sfonda il cervello mentre penso che sono un pazzo coglione. Ora muoio.

Pensavo che si morisse più velocemente quando ci si butta da un’altezza simile, mi guardo intorno e dietro di me c’è ancora quel vecchiaccio che sfreccia con me. Oh, non mi molla. Machissenefrega.

Porca puttana, sto volando. Ora muoio.

Capitolo 7

BRANO CATTIVO

Il rumore del mio corpo che entra nell’acqua, la sensazione sulla pelle e poi il silenzio.

Apnea.

Sono morto. Cavolo, così giovane. In fondo non me lo meritavo, no?

E poi, non è giusto. Anche da morto sono tutto bagnato, tutto inzuppato. Il mio destino è vivere, mi correggo, morire a mollo, non c’è dubbio.

Dai, se non altro mi sono sbarazzato del vecchiaccio malefico.

Ma sono idiota?

Sono morto e mi preoccupo del vecchio?

Dovrei pensare a me e al fatto che sono morto! Con che coraggio per di più!

Chissà se qualcuno troverà il mio corpo o se rimarrò disperso nel lago Wildjoint. Probabilmente in entrambi i casi nessuno mi piangerà, nessuno verserà lacrime per Max il Coraggioso.

Questo pensiero mi incupisce.

Forse non mi è convenuto morire, forse non serve a niente essere coraggioso.

Se fossi vivo scuoterei la testa e aprirei gli occhi in segno di rassegnazione. Davanti a me una schiera di facce opache e basite, annuiscono al mio pensiero, lo confermano. Accanto due leoni si seguono in cerchio con aria di sfida.

Dietro di me Amy mi sta passando un foglio, ma non riesco ad arrivarci, dai allungati Amy, sforzati un pochino. Cosa c’è là in fondo? Un mulino a vento fatto di ferro, fermo, guarda dalla porta sta uscendo un pistolero, che cosa fa? Spara in aria?

«Ehi? Scusa, chi cerchi?»

Già già, mi devo collegare con gli agenti, questi schermi sono tutti collegati, bene. «Mi sentite?» Sono sempre stato appassionato della Corrida, «Vai Torero! Oh no, ti ha infilzato di brutto.»

«Mamma mi compri i colori, voglio fare mille disegni.» «Sì Max, dopo, ora devi andare in piscina»

Meno male che ci sei tu Nerd, gatto morbidoso. Ma quanto sei soffice. Buono il whisky, questo poi è magnifico, alla vaniglia. «Sì sì ho capito» Ancora quelle facce che mi fanno Sì con la testa. «Ho capito! Che diamine, buono il whisky»

«Amy hai messo a posto i leoni? Ah no? Allora manda una mail al pistol... ancora voi!?»

«Non voglio»

«Dai Max, coraggio, provaci, è solo un tuffo!»

«Mamma ho paura, non voglio. Non mi spingere. Non mi spingere eh. No! No! Nooo.»

Splash.

Non sono morto. Sono appena risalito in superficie.

Il cielo è grigio, il fiato esce regolarmente dal mio naso e dalla mia bocca. Sento l’acqua sulla pelle, devo uscirne e asciugarmi.

Davanti a me lande aride e desolate.

Non sono morto.

Capitolo 8

OCCHI DA CERBIATTO

Aria.

Aria da respirare, sono fradicio, ma almeno sono vivo.

Intorno al lago non c’è anima viva, la città si scorge appena da qui.

Quanti chilometri ci saranno? Cinque? Sei?

Bando alle ciance, devo correre a casa, se sono qui mi devo preparare per andare in ufficio. Non ho neanche un orologio ed è sicuramente tardi!

Passo qualche staccionata, mi lascio indietro un passaggio a livello, ma non incrocio nessuno. Mamma mia che periferia abbandonata, l’ho sempre detto: se l’amministrazione non si da una mossa, ci credo che la gente si trasferisce in centro. Non succede niente, non ci sono mai eventi interessanti.

Una volta non era così.

Eppure mi sembra di sentire dei suoni là in lontananza, sì ne sono certo: c’è anche della musica. Wow, della musica, sarà un rave?

L’insegna recita “Il Vecchio West”. No, non è certo una discoteca e neanche un pub, sembra più una locanda. Come quelle dei film di Sergio Leone. Da qui si sentono brindisi, cori, canti, musica dal vivo, felicità. Come resistere?

Eccomi dentro, in un battibaleno, ma che bello, qui l’aria di festa è una consuetudine, è la normalità, è evidente!

Voglio brindare anche io con questa gente, ma dietro al bancone non c’è nessuno! Nessun cameriere, nessun barista che shakera.

«Ehi tu, chi ti ha servito?»

Il tizio mi guarda come se fossimo amici da sempre e mi si risponde: «Come chi? Mia!»

«Oh, una donna. Interessante.

Ma non riesco a vederla, dove si nasconde?»

Dalla cucina arrivano solo piatti colmi di cibo, scivolano sul bancone a una velocità incredibile. Poi iniziano a volare per aria, come su dei frisbee le portate arrivano intonse sui tavoli e volano in alto a sfiorare le teste dei clienti e i festoni appesi. A ogni piatto parcheggiato al volo segue un applauso roboante.

Il cuoco qui ha un modo strano di far uscire le portate e sembra che sia un vero e proprio idolo da queste parti.

Ma la barista dov’è?

Non faccio in tempo a chiedermelo che ecco balzellare dietro il bancone un piccolo cespuglio capelli ricci e corvini. Corre per tre metri poi girarsi di scatto su se stesso e con un movimento sinuoso un braccio lancia un piatto di nachos e salse verso il palco.

Il fresbee improvvisato mi sfiora l’orecchio e arriva preciso preciso sul tavolino di fronte al cantante, che ringrazia e riprende a cantare. La folla è in delirio.

Non faccio in tempo a vedere il viso che il piccolo cespuglio, dal corpo ancor più minuto fugge via, verso le cucine.

Non so da quanto ho la bocca aperta, sicuramente da un po’ visto che il mio nuovo amico mi assesta una pacca sulla schiena:

«Ehi malandrino sembri un po’ distratto, lei è “famosa per il lancio del piatto”! Sai cosa vuol dire? Pensi che stia dando di matto? Non ti mettere mai in testa di competere con Mia, è impossibile!»

«Anche se ti muovi con un agile scatto» continua un altro «è più veloce lei! È più veloce anche del piatto»

Questi tizi non mi stanno più tanto simpatici e questa Mia potrebbe anche imparare a servire i clienti per tempo, no?

Altra pacca sulle spalle: «Cosa ci fai lì impalato con quegli occhi da cerbiatto?»

«A me sembra più un pesce gatto».

Ok, mi sono rotto.

«Io un pesce gatto?» rispondo «Che cos’è il Campionato del Lancio della Bistecca? Non mi fate ridere. E poi che ci vuole? Lo saprebbe fare chiunque. Ecco state a vedere...»

Afferro il primo piatto di una pila che ho accanto, allungo il braccio per lanciarlo ed ecco uscire in quell’esatto momento i ricci di Mia dalla cucina.

Il piatto mi scivola di mano e si frantuma. Tutti intorno a me ridono.

Sono basito. Mia è una bambina. Non una donna bassina, minuta e gracile. No, Mia è una bambina di sei, otto o dieci anni. Che ne so di quanti anni! Io odio i bambini, marmocchi agitati e rompipalle. Per di più è la bambina con gli occhi più grandi che io abbia mai visto, due liquide pozze nere.

«E quindi tu saresti Mia, enchantè... marmocchia!»

«Piacere, sì sono io, e tu chi sei?» la bambina mi guarda come se fossi un moccioso più piccolo di lei, un poppante.

Terza pacca sulla schiena: «Ehi non vorrai mica sfidare Mia col piatto, guarda che ci rimani male, lei è più brava, è un dato di fatto!»

Tutti ridono.

Non so che mi è preso, forse le pacche o le risate intorno, ma la mia mano va automaticamente alla pila di piatti e afferra il primo della pila.

«Chi sono io non ti interessa, prendi questo!»

Posso giurare di averlo lanciato lontano, forte e deciso. Ma il piatto è di nuovo lì.

Come se non l’avessi mai preso.

Non è possibile. Eppure cavolo se l’ho lanciato!

«Non ti sei accorto di niente, forestiero» ride il mio amico.

«Sì è stata troppo veloce, e chi se n’è accorto? Nessuno!» continua l’altro.

Quasi mi metto a ridere: “Vorreste dirmi che lei lo ha preso al volo e rilanciato subito? Così precisamente? È impossibile...»

La bambina davanti a me sorride, anzi ride, ride di me mentre solleva la mano e con due dita mi sfida: «Dai prova con due, straniero».

Mi sposto verso un tavolo, afferro due piatti colmi di avanzi e glieli lancio addosso con tutta la forza che ho.

Lei alza le braccia e li blocca con fermezza, ma io ne ho preso già altri due e glieli lancio in piena faccia. Voglio vedere come fa con le mani occupate e non me ne frega niente se si fa male, se è una bambina.

Ma appena finisco di lanciarle anche quelli lei si è liberata degli altri che sono già volati nel lavello del bancone. La folla urla, Mia fa cenno a tutti di stare zitti. Cala il silenzio.

«Dai, non importa, sei bravino, ma ora devo andare a lavorare» dice voltandosi per tornare in cucina.

Non me ne frega che sia di spalle, nessuno può trattarmi in questa maniera.

Inizio a scagliarle contro qualsiasi cosa: bicchieri, posate, perfino una brocca, ma non c’è verso, è fenomenale. Si gira di scatto, afferra tutto e comincia a rilanciarmi ogni oggetto che afferro al volo, uno dopo l’altro, ma in modo sempre più precario.

La folla è muta, anche il cantante ha smesso di vociare, inizio a essere stanco, ma devo resistere o distrarla.

«Sei solo famosa per il lancio piatto» inizio «Non per la tua intelligenza o per chissà che cosa! Si un fenomeno da baraccone, un freak senza famiglia» esclamo e bum! Colpita e affondata.

Si ferma. Poggia l’ultimo piatto che ha in mano, decretando così la mia vittoria. Mi viene incontro piano, gli occhi sono lucidi e il suo fiato accarezza il mio orecchio mentre sussurra:

«Anche se non lo sai nemmeno, tu sei bravo, davvero, forse il più bravo che io conosca, sei speciale». Io resto di sale, mentre lei scappa da un una porta in fondo del locale. Sparita, veloce come un suo piatto.

Mi risveglia dallo stupore la voce seria del mio amico con il cappello:

«Levati di dosso quegli occhi da cerbiatto e valle a dire che è speciale anche per te.»

Capitolo 9

OGNI SINGOLA AZIONE

Mi fiondo verso quella porta attraverso la quale Mia è fuggita.

Devo raggiungerla.

L’ho fatta piangere io? Ma che cavolo, non aveva neanche perso e abbiamo fatto solo un paio di lanci di piatti. Eh sì, è una bambina, i bambini piangono e io non li sopporto. Perché la sto inseguendo?

Forse perché non sembrava che stesse piangendo per lo scontro o per la sconfitta, sembrava che stesse piangendo per me.

Con questi pensieri in groppa, corro verso la spiaggia, chissà, magari è lì. Una direzione devo pur prenderla. Non so quando si è fatta notte, il buio è fitto, ma il cielo è terso e le stelle incantano tutto il paesaggio, addirittura si vede la via lattea, è magnifica, come è magnifico il tappeto sonoro che accompagna tutta questa vegetazione variopinta, grilli, uccelli notturni, lupi in lontananza, ruscelli.

Potrei sdraiarmi e rilassarmi, ma non posso: voglio, devo trovarla, ho bisogno di sapere che sta bene.

Arrivo alla spiaggia, ma di lei neanche l’ombra. Sento piagnucolare dalla scogliera, non so come, ma sono sicuro: in una di quelle piccole grotte c’è Mia.

Eccola, una piccola figura raggomitolata e scossa dai singhiozzi.

Odio tutto questo, un nodo mi stringe alla bocca dello stomaco. Non mi è mai successo prima, è questo che capita quando fai piangere qualcuno per cui sei speciale? Il pensiero va per un momento a mia madre, chissà se si è mai sentita così.

Scaccio l’idea passandomi la mano sulla faccia e sedendomi accanto a Mia.

«Dai bambina, non è niente di grave». Provo a dire.

Lei mi mette il suo piccolo pugno stretto in mano, quando lo apre lascia nella mia una piccola foto. Un regalo. La infilo in tasca e le ringrazio. I singhiozzi diminuiscono. Mi chiedo perché mai io dovrei essere così tanto speciale per lei.

«Non sono un fenomeno da baraccone, sono andata via di casa quando è morto mio fratello. Lui era molto più bravo di me.» dice lei «io ero piccola, ma ho aperto la mia locanda e da quel giorno non sono più cresciuta, sono l’eterna bambina»

La stringo a me, ho bisogno di sentirla vicina e in questo abbraccio il nodo che ho allo stomaco si scioglie. Dai miei occhi scende una piccola grande lacrima, quella che trattengo dal momento in cui sono venuto al mondo.

Ci addormentiamo così, in un lungo sonno caldo e senza sogni.

Capitolo 10

VOLERSI BENE

«Pum!»

Che è sto casino?

Sento la faccia appiccicata sul freddo tavolo di laminato. Tavolo? Di laminato?

Mi ci vogliono un po’ di secondi per realizzare, un ronzio lento da computer, voci e odore di caffè. Sono nel mio ufficio e nel bel mezzo di una riunione. Cavolo, ho sognato? Un sogno iper-realistico!

Con la sua mano sulla mia spalla il mio capo recita la frase di rito, quella che aspettavo da tanto: «Max, ci siamo, da oggi sei vicepresidente!»

Applausi, congratulazioni. Amy entra con un vassoio di dolcetti al cioccolato e poi esce di corsa, alle segretarie non ne spettano.

Ne mangio uno con soddisfazione, ma ho difficoltà a deglutirlo. Provo a berci su del caffè, ma mi si blocca all’altezza del petto. Come se mi avessero messo sottovuoto l’intera gabbia toracica.

Che ti succede Max? Sei vicepresidente! Dai dai dai!

Ma è inutile ripetermelo, sono in stato di agitazione, mi tremano le mani, e senza farmi accorgere dagli altri, me le infilo in tasca. La sinistra tocca un foglio liscio e spesso, lo tiro fuori. Lo guardo, le gambe mi cedono, crollo su una sedia e il cuore salta un battito al vedere una Mia sorridente accanto a un giovane Piuk, dietro di loro il salto delle cascate di Highwall.

«Discorso, discorso, discorso» inneggiano i miei colleghi.

Mi alzo, schivo i loro corpi attoniti, esco dalla stanza e mi fiondo verso Amy.

«Amy Amy Amy, mia cara, ascoltami bene, devi darmi un colpo in testa!» la mia voce è più agitata di me.

Lei è spaventata, non capisce, ovviamente.

«Amy per favore credimi, mi serve un colpo in testa» prendo il bollitore del tè sul tavolo accanto «dai, colpiscimi con questo! Amy dove vai?»

Torna subito con un foglio e una penna.

«Ma che...» la guardo basito.

«È una liberatoria, non crederai mica che mi lasci fregare da uno stronzo come te, firma!» e mentre firmo: «Sgancia la teiera Max».

«Ok ok ok, un colpo secco ok? Cazzo, cazzo, sono pro...»

Sbam!

«Daaa quuuaaantooo tempooo volevooo darglieeelo queeel l cooolpooo»

La voce di Amy è sempre più lontana, sostituita dal rumore del vento e da uno scricchiolio, come di una finestra di legno. Riapro gli occhi, davanti a me l’insegna scrostata e polverosa de “Il vecchio West”.

Capitolo 11

SAMBA COLOMBIWIANA

Volevo rimediare, volevo dire a Mia che suo fratello non era morto ed è... è stato mio amico. Volevo, anzi, voglio che si ritrovino, e che possano presto giocare, riabbracciarsi.

Corro verso il lago, non c’è nessuno. L’acqua scura mi lambisce i piedi.

Non ho mai avuto paura perché non avevo niente da perdere e quando non hai nulla a cui tieni nessuna azione può essere coraggiosa. È questo che volevi dirmi uomo bianco dei sogni?

Un pesce bianco salta fuori dall’acqua e vi si rituffa lasciando che le onde circolari arrivino fino a me.

Guardo lo specchio liquido, ho capito la lezione: mi tuffo.

Sott’acqua si fa tutto nero come una tv spenta e piano piano appaiono appannate immagini di me nel passato e nei possibili futuri. È terribile rivedersi con la coscienza accesa, ma l’immagine peggiore non mi riguarda: davanti a me compare una Mia adulta nella sua locanda, tiene in mano una pistola, accanto a lei Iahai mi dice che è solo colpa mia, dagli occhi gli cadono lacrime nere.

Urlo disperatamente che sto andando a salvarla, che sono tornato lì per lei, ma l’acqua mi riempie gola e polmoni. Il mio urlo muto non verrà sentito neanche dai pesci. Mezzo svenuto risalgo in superficie, mi trascino sui gomiti e scopro di essere in cima alle cascate di Highwall. Davanti a me un mucchio di uomini chiaramente incazzati e armati. Davanti a loro c’è Piuk.

«Max».

La voce secca di Piuk riecheggia nel riverbero del vuoto delle cascate e suona come una condanna a morte. Gli uomini si avvicinano con i bastoni in mano, ma il primo a colpirmi è un calcio dritto sul mio stomaco che si stringe di dolore. Dalla bocca mi esce ancora acqua di lago.

Mi piego su me stesso, per proteggermi da ciò che sta per arrivare.

E giù un altro calcio. E poi una bastonata e poi un «Bastardo», un «Devi sparire per sempre».

Chi se ne frega, c’è chi muore sotto un tir, c’è chi muore sotto un ponte, e io muoio qui, per una stupida, ridicola, inutile manciata di botte. Non chiedo di smettere, so che morirò e con me il segreto di Mia.

Mia. La pistola.

Io posso morire qui, ma lei, se quello che ho visto fosse il suo futuro e io fossi l’unico a conoscerlo? Potrebbe esserci ancora una speranza di salvarla.

Gli uomini di Piuk si allontanano, sento le loro voci dire al mio ex amico di darmi il colpo di grazia. Lui tentenna e io ne approfitto, mi tiro su sulle ginocchia e tiro fuori dalla tasca la foto, provo a mostrarla a Piuk ma dalla mia bocca non esce alcun suono. Il suo boomerang parte veloce come non mai, io apro le mie braccia e il legno mi colpisce in pieno.

Io e la foto cadiamo a terra, lentamente, come due foglie.

Buio.

Capitolo 12

MORTO SOTTO UN TIR

Allora è un vizio, ci sto prendendo gusto a lottare tra la vita e la morte.

E non si può neanche lottare in pace, accanto a me un Piuk esagitato ha appena varcato i diecimila passi avanti e indietro, giuro che se non muoio gli regalo un contapassi. Deve avermi portato nella sua capanna per curarmi, deve aver visto la foto.

Fuori dalle finestre chiasso a dismisura, contro di me? No, contro Piuk, contro colui che sta tenendo in vita il nemico. Voci che inneggiano alla mia morte riecheggiano in tutta la stanza passando dai pertugi tra una tenda e l’altra. Ore e ore in cui io e il mio amico non siamo soli, accanto a me Iahai, fermo come una statua dagli occhi chiusi, mi accompagna silenzioso in questo limbo.

Piuk alterna i suoi passi a preghiere su preghiere al fine di farmi sopravvivere, Iahai non risponde alle sue invocazioni, è un idolo di legno bianco. Lo prendo per un buon segno, ma il massimo che posso fare è seguire la scena da moribondo. Muoio e non muoio. Chi lo sa?

Sono così stanco...

«Max? Max? Oh cazzo, chiamate il dottore!» urla Piuk e poi «Sta morendo, non respira più»

Guardo Iahai, immagino che lui sarà contento di questo epilogo. Ma l’uomo bianco dei sogni apre gli occhi e mi guarda con un mezzo sorriso. Anch’io mezzo-sorrido. È strano morire, è la prima volta nella mia vita in cui mi sento vivo.

«Aiutami, ti prego» sussurra la mia bocca.

«La tua morte morale si è estesa anche al tuo corpo, hai vissuto così per tutta la tua vita, l’hai scelto tu, perché cambiare proprio ora?» risponde finalmente Iahai.

«Ti preferisco quando parli al dritto, ma non è che ora ho tante energie per analizzare la mia situazione. Ti prego aiutami.», non posso fare a meno di essere me stesso, almeno l’ironia mi è rimasta.

«Sei stupido, te l’ho già detto vero?» dice, come se scendesse al mio livello. E continua: «Ma è bello scegliere di essere stupidi, quando si è capito cosa vuol dire essere coraggiosi e umili e rispettosi.»

Con sempre meno forza, balbetto una cosa che non avrei mai pensato di dire in vita mia: «Non ce la faccio da solo, ho bisogno di te»

«Che cosa hai da perdere?» mi chiede.

«Solo Mia e Piuk» rispondo assieme al mio ultimo sorriso.

Capitolo 13

ELOGIO ALL’UMILTÀ

Mi sento invadere da un calore profondo, come se qualcuno mi stesse versando dell’acqua calda dentro al petto. Il calore si estende lungo tutta la cassa toracica e poi al basso ventre, scende nelle gambe e nelle braccia. Come la linea perfetta di un pittore raggiunge la mia testa e sento che i miei occhi non possono più stare chiusi e che la mia bocca deve aprirsi. Una forte luce mi circonda e i muscoli riprendono energia. Lungo la schiena una forte pressione raddrizza ogni mia curvatura e lungo il collo come se due forti pollici mi massaggiassero con un balsamo magico.

Mi sento vivo. No. Sono vivo. Sono nato per la seconda volta.

Piuk dorme su una seggiola, sembra stremato.

Io, al contrario, mi sento guarito da ogni ferita, e carico, come se contenessi una luce accesa. Prima di svegliare il mio amico, cerco Iahai intorno a me. Non c’è nessuno. Ma sono sicuro di quello che ho vissuto. Questo non è mai stato un sogno.

«Ehi capellone, sveglia! Dai dai!» mi adoro in modalità sveglia.

«Cosa...? Cos’è successo? Com’è possibile, eri morto!»

«Ma che morto e morto, ti sembro morto? Dobbiamo muoverci, abbiamo una persona che ci aspetta, lo sai» continuo trascinando il mio amico verso l’unico posto possibile. Lui mi segue, fiducioso.

C’è solo un modo per arrivare in un battibaleno alla locanda di Mia: passare dalla cascata e dal lago. Ma ora non c’è nessun problema. L’acqua scorre leggera sotto e intorno a noi. Non so se per Piuk vale lo stesso, ma le paure, i desideri, il passato e il futuro, i se e i ma, è come se non mi riguardassero più.

Arriviamo al Vecchio West, lo troviamo ridotto in macerie e al suo centro Mia, adulta, in lacrime con in mano una pistola. La canna di metallo poggiata sotto il mento..

Ci avviciniamo, ma il mio amico rimane nascosto dietro di me.

«Sono cresciuta troppo, cercandoti, addio.»

«Aspetta»

Mi sposto di lato e dalle mie spalle spunta Piuk che finalmente si mostra alla sorella.

Un rumore sordo di acciaio su legno. Mia lascia cadere l’arma e corre ad abbracciarlo. Passa come al rallentatore sotto ai miei occhi, mentre allarga le braccia a favore del fratello e io provo la sensazione di essere nel posto giusto, al momento giusto, facendo la cosa giusta. Una sensazione di correttezza e centratura che mi fa sentire forte e vivo.

Capitolo 14

PAROLA DI DIO

«Ti amo lo sai?»

«Mmm, chi può dimostrarlo?»

«Dai lo sai! Io ti amo»

«Mmm e chi può dirlo?»

«Ora mi hai stufato, lo sai cosa ti dico?»

«Cosa?»

«Che sei il mio privilegio, che sei la mia fortuna. Lo sai che ho ceduto l’invito ad andare oltre il cielo, per te? Mmm, lo sai?»

«Anch’io ti amo. Sei il mio balsamo magico»

Se la mia vita è cambiata? Chi lo sa!

Sto scherzando, ovviamente, sì, è cambiata.

Volete sapere come? Non ve lo dico manco morto!

Mmm, va bene, sto aaancora scherzando.

Ve lo dirò, ma dovrete farmi una promessa che poi vi chiederò.

Non so precisamente come, non so neanche esattamente per volere di chi, anche se in molti dicono “perché l’ho voluto io”, ma c’è stata come una fusione tra me e Iahai. Beh, detto così è un po’ strano. Però sì, ci siamo fusi, fusi per davvero, siamo una cosa sola, io sono lui, lui è me. Lo so, è strano, forse anche difficile da capire, ma non saprei come altro dirlo. Non che io ora sia bianco o che lui vada in ufficio al mio posto, ci mancherebbe altro, lui odia gli uffici. In quel momento, in quel limbo, lui ha deciso di aiutarmi, ma solo dopo che io decisi di chiedere aiuto.

Non sono morto, ma solo perché l’unico desiderio che avevo non era vivere, ma vivere sereno.

Oggi, ogni giorno, quando mi sveglio e guardo Mia, sento sempre la stessa sensazione, quella sensazione di calore, di ritrovamento perpetuo, beh, che ormai conoscete bene anche voi, e quando mi guardo allo specchio questa sensazione si amplifica e mi riempie ancora di più.

Esco nel mondo e non mi importa di essere Max, divento e sono Iahai, la divinità, l’uomo bianco che cerca di risvegliare le coscienze degli altri uomini, uno alla volta, piano piano, parlando al loro cuore con la musica dei sogni.

E ora che avete conosciuto la mia storia, stringete un accordo con me perché lo sapete anche voi:

«Massima è la vita, e massimo è lo sforzo che ci chiede la vita.

Svelti amici, è ora il momento di alzarsi e mettersi in viaggio.

Che la Volontà, il Desiderio, la Dignità, il Rispetto, l’Onestà, il Coraggio e l’Umiltà, la facciano da padrona in un mondo in cui hanno voluto insegnarci che le cose belle sono poche e sono lontane da noi, invece le cose belle sono tante e sono vicine a noi.

Durante questa vita vi perderete? Sì.

Non vi ricorderete chi siete? Può darsi…

Quello sarà il momento in cui dovrete trovare la forza di chiedere aiuto e non potrete fare a meno del bene reciproco.

Inizierete a sentirvi bene quando l’altro starà bene e tutto questo diventerà sinonimo di libertà.

Che sia il più bello dei viaggi, quello verso sé stessi.

E se domattina vi sveglierete in un posto che non avete mai visto con intorno persone che non conoscete, se l’aria intorno a voi avrà un sapore diverso e sorprendente, allora amici, niente paura, no, forse quello è il posto giusto per voi: siete arrivati, fieri di aver dato sempre il massimo.»